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La luce che filtrò tra gli alberi fu come una
scudisciata. Ancor prima di realizzare che ora fosse mi ritrovai seduto fuori
dal sacco a pelo con il cuore in gola per la sensazione di non aver sentito la
sveglia. Anche quando riuscii ad aprire gli occhi e capii che erano da poco
passate le sette, ovvero quasi mezz’ora in anticipo sull’orario di sveglia
stabilito, ci volle qualche minuto perché il battito cardiaco ritornasse
normale. Era l’ultimo dei cinque giorni di vacanza “in solitaria” che ero
riuscito a strappare alla moglie e, se non mi fossi svegliato in tempo, avrei
perso l’ultima possibilità di catturare “la Porcaccia”. Con la flemma tipica dell’antilope
inseguita dal leone mi vestii, smontai la tenda, sistemai tutto il bagaglio in
auto ed andai a lavarmi. Al mio ritorno venni accolto dal gracidare frenetico
della sveglia, che mi ero dimenticato di spegnere, e dagli sguardi assonnati e
poco amichevoli dei miei vicini di tenda, una coppia di francesi poco più che
ventenni che, almeno a giudicare dai rumori, avevano trascorso gran parte
della notte o a trombare come ricci in calore o in preda a terribili coliche
intestinali. Sfoderando la più convincente espressione di pentimento, che in
realtà non provavo minimamente, mi affrettai a spegnere la sveglia e, mentre
mi scusavo e gli auguravo una buona giornata, dentro di me esultavo. Italia –
Francia
1 a 1 ed
in inferiorità numerica!
La giornata si prospettava fantastica,
del temporale della sera prima erano rimaste solo alcune piccole pozzanghere,
il cielo aveva il colore della maglia della nazionale ed anche in direzione
delle Tre Cime di Lavaredo non si vedeva traccia di nuvole. Dato che erano le
sette e tre quarti, e fino alle otto e mezza la reception del campeggio non
avrebbe aperto, decisi di andare a vedere il canale. L’acqua era leggermente
velata e forse un paio di centimetri più alta rispetto ai giorni precedenti;
sicuramente “sotto-diga”, dove intendevo pescare, avrei ritrovato le consuete
condizioni di acque basse e limpide. L’unica perplessità era legata alla
temperatura che, nonostante fosse la fine di Luglio, il temporale aveva
abbassato fino a renderla molto simile a quella di inizio Maggio. Praticamente
un freddo boia. Avevo constatato che laggiù, nella gola, le schiuse non
iniziavano mai prima delle nove e, da quel momento, occorreva una buona
mezz’ora prima che il quantitativo di insetti emergenti fosse sufficiente a
mettere le trote in attività di superficie. In pratica una mattina di pesca a
“secca” si riduceva a poco più di un’ora perché, prima delle undici e fino
alle quattro del pomeriggio, quando il sole riusciva a penetrare la fitta
boscaglia che invadeva la gola, non si vedeva più bollare un pesce di taglia
superiore ai venticinque centimetri. Pregando che il sole si decidesse a “fare
il suo dovere” andai al bar del campeggio ad ingozzarmi di strüdel e quindi
alla reception a pagare il conto dei quattro pernottamenti. Alla faccia delle
economiche vacanze in campeggio! E’ vero che, nonostante non ci sia più
tornato, per tre anni mi hanno spedito gli auguri di Natale con tanto di
listino prezzi e brochure informativa, ma con quei prezzi al bigliettino
potevano anche allegare una bella bottiglia di Gewürtztraminer !!! Con il
portafoglio decisamente troppo leggero imboccai la statale della Val Pusteria
e, dopo una ventina di chilometri, arrivai alla riserva di Valdaora.
Nonostante i segni evidenti che il temporale fosse stato ancora più violento
che a Dobbiaco, la temperatura sembrava appena più bassa rispetto ai giorni
precedenti, mentre le condizioni del fiume, che in questo tratto si presenta
più come un torrente di fondovalle, apparivano pressochè invariate. A
proposito, sarei grato a chiunque sapesse dirmi dove va a finire gran parte
dell’acqua, forse più della metà, che il Rienza immette nel lago di Monguelfo.
Erano ormai le nove. Se tutto fosse andato normalmente entro mezz’ora o poco
più la Porcaccia si sarebbe portata nella sua posizione abituale di caccia,
avrebbe iniziato la sua giornaliera scorpacciata di insetti, ed io sarei stato
lì per fregarla, inesorabile come un “alieutico cavaliere dell’Apocalisse”.
Nelle tre mattine precedenti era stata lei a fregarmi ma questa volta sentivo
che era quella buona, il fatto che anche la mattina precedente e quella prima
ancora avessi avuto la stessa certezza non intaccava minimamente la mia
fiducia. Avevo trascorso tutto il pomeriggio e la sera precedenti a studiare
nei minimi dettagli la strategia da adottare, mi ero costruito un paio di
mosche appositamente progettate e mi sentivo sicuro del risultato finale. A
questo punto non starete più nella pelle per la curiosità di sapere chi era la
Porcaccia. Avevo così battezzato una splendida Trota Fario di circa
quarantacinque centimetri, una femmina piuttosto magra, nera come il carbone e
con dei pallini rossi, cerchiati di bianco, radi ma grandi come non mi era mai
capitato di vedere. In realtà non era il pesce più grosso che avessi visto in
quel tratto di fiume. Il primo giorno, dopo aver montato la tenda ed aver
perso più di un’ora per riuscire a trovare il posto dove reperire i permessi
di pesca, intorno alle cinque del pomeriggio ero sceso verso il limite
inferiore della riserva. Una fila di grossi sassi attraversava il fiume
creando un piccolo salto d’acqua. A valle si formava un’ampia lama, con
profondità intorno al metro e superficie molto increspata che terminava in un
raschio piuttosto veloce dove, al centro, erano ben visibili un paio di
Temoli sui venticinque centimetri che “ninfavano” instancabilmente. Siccome
tirava un vento piuttosto fastidioso e non si vedeva la benché minima attività
di superficie decisi di sostituire il solito finale di quattro metri con uno
di tre e montai una “water-hen bloa” spyder su amo quattordici. Dal momento
che erano diversi mesi che non utilizzavo finali così corti, per non
commettere errori decisi di fare qualche lancio di prova. Pochi metri più a
valle il fiume si allargava in una vasta e tranquilla piana, profonda dai
venti ai quaranta centimetri, dove non si vedeva alcun pesce e che sembrava
l’ideale per fare qualche prova. Contro la riva opposta, dietro due grossi
massi, si formava una “buchetta” poco più grande del mio cappello, profonda
quasi un metro, che decisi di utilizzare come bersaglio. Com’era presumibile
il primo lancio risultò un pò troppo corto, il secondo, invece, sarebbe stato
leggermente lungo se una folata di vento non avesse deviato bruscamente verso
monte la traiettoria della mosca che, picchiando contro il fianco di uno dei
due massi, rimbalzò cadendo in acqua quasi al centro della “buchetta”.
Nell’istante preciso in cui la mosca toccò la superficie scoppiò il finimondo,
l’acqua si aprì in mille spruzzi e volò fuori una specie di gigantesca saetta
argentea, la sorpresa fu enorme ma, d’istinto, riuscii comunque a ferrare
efficacemente. Lottò come una furia ma per metri e metri intorno non c’era il
più piccolo ostacolo che potesse essermi d’intralcio, inoltre l’acqua era
talmente bassa che il ventre quasi strisciava sul fondo impedendole ogni
possibilità di saltare. Per fortuna l’Akron del quattordici ed il Tiemco 2487
fecero il loro dovere e, dopo un paio di minuti, restituii al fiume uno
splendido ibrido di Marmorata di quarantotto centimetri abbondanti. A parte
quella e la Porcaccia, in quattro uscite non avevo visto un pesce che
superasse i trentacinque centimetri. Il prossimo mese di Luglio saranno
trascorsi esattamente dieci anni e, a parte la lunga catena di casualità che
portò a quella cattura, mi sono chiesto decine di volte, senza trovare una
risposta soddisfacente, cosa diavolo ci facesse un pesce così in quel posto.
Quella mattina, mentre risalivo il fiume per arrivare al luogo “dell’epico
scontro”, mi ripetevo che con la Porcaccia le cose sarebbero andate ben
diversamente, avevo trascorso veramente tanto tempo ad osservarla, quasi
stregato dalla grazia e dalla sinuosità dei movimenti; stavolta non sarebbe
intervenuto nessun evento casuale a sminuire od intaccare la soddisfazione
del successo tanto agognato. Il “campo di battaglia” era una grossa buca
divisa in due, nella parte terminale, da un grosso albero crollato ma ancora
vivo e piuttosto rigoglioso. La parte inferiore del tronco, che si stendeva a
quasi un metro dall’acqua, era praticamente spoglia ad eccezione di due
rametti, verso la cima, che pendevano fino a solcare appena la superficie;
esattamente tra questi, un paio di spanne più a valle, la Porcaccia aveva
stabilito la sua posizione di caccia. Nonostante i due rametti, presentarle
l’artificiale in maniera corretta non sarebbe stato un problema se tutta la
parte finale della buca non fosse stata letteralmente inghiottita dalla
vegetazione riparia. In pratica l’unico punto da cui potevo insidiarla
efficacemente era all’interno di un tunnel arboreo, alto circa tre metri e
largo non più di sei o sette, che si apriva solamente un paio di metri più a
valle di dove era appostata la “bestia”. Il primo giorno, con un lancio
angolato piuttosto morbido, le avevo presentato, posandola sotto il tronco tra
i due rametti, una Gordon Quill parachute su amo sedici, molto somigliante
(almeno per me) alle piccole effimere che prendeva instancabilmente. Lei si
era avvicinata con la massima tranquillità fermandosi a quattro dita dalla
mosca, l’aveva seguita, lasciandosi trasportare dalla corrente, per qualche
centimetro e poi era letteralmente schizzata a rintanarsi. Uno a zero e palla
al centro!

Pensando che fosse stata spaventata dal
finale, anche se era un quattro metri con punta del dodici, il giorno
successivo montai un quattro metri e mezzo con punta del dieci e tentai di
presentarle, con un bel lancio curvo effettuato in “sottovetta”, la stessa
mosca ma su amo diciotto. Purtroppo, per effettuare una curvatura
sufficientemente ampia, nello shooting finale la coda doveva infilarsi sotto
il tronco dell’albero caduto e, nel momento stesso in cui la coda entrò nel
suo campo visivo, partì come un razzo per raggiungere la tana. Trota due,
Paolo zero! Il terzo giorno tentai nuovamente con il lancio angolato ma con il
finale del giorno precedente ed una formichina su amo venti. Questa volta La
Porcaccia attese che la mosca le arrivasse esattamente sopra la punta del muso
e la seguì per oltre due metri fino a quando, inevitabilmente, iniziò a
“dragare” provocando l’ormai abituale fuga-in-tana. Trota tre, Paolo …. NERO!
Per quest’ultimo round avevo progettato di comportarmi in modo totalmente
diverso, attuando un giochetto che, in diverse occasioni, mi aveva dato ottimi
risultati. Mi ero costruito un paio di imitazioni di bruco, su amo dodici a
gambo lungo, avvolgendo per tutta la lunghezza del gambo quattro herls di
pavone su cui avevo avvolto, a spire larghe, del polyfloss rosso e due hackles
di gallo rosso piuttosto sovradimensionate rispetto all’apertura dell’amo.
Poi, con lo stesso polyfloss, avevo finito l’artificiale con una testina
decisamente vistosa (l’unica cosa somigliante che abbia mai visto aggirarsi
nei pressi di un corso d’acqua è stata la berretta di lana di Pipani).
Utilizzando un finale di quattro metri e mezzo con punta del dodici avrei
eseguito un lancio “sottovetta-laterale-rallentato” (è più difficile da dire
che da fare!) un po’ più lungo del necessario, mandando a sbattere la mosca ed
un mezzo metro di punta del finale contro il tronco dell’albero. A questo
punto l’artificiale sarebbe arrivato in acqua proprio come un bruco caduto
dall’albero. Nel mio immaginario avevo vissuto la scena decine di volte. La
Porcaccia si sarebbe avvicinata cautamente, avrebbe preso in bocca la mosca,
delicatamente, quasi solo a volerla assaggiare ed io l’avrei ferrata con
“cauta decisione”. Dopo un attimo di inevitabile sorpresa avrebbe capito di
essere stata fregata ed avrebbe scatenato il finimondo. Uno, due, forse
addirittura tre salti e poi la fuga, inizialmente verso la tana, troppo
distante per non darmi la possibilità di bloccarla prima, e poi verso sinistra
dove, in una vasta ansa di acqua quasi ferma, cinque o sei metri a monte
dell’albero caduto, il fiume aveva accumulato, oltre ai soliti detriti, alcuni
grossi rami. Se fossi riuscito a fermare la fuga iniziale prima che arrivasse
all’altezza di quei rami, avrei anche avuto buone possibilità di impedirle di
raggiungerli; diversamente beh ….. ce la saremmo giocata! Quando arrivai sul
posto era già in attività, osservava tranquilla gli insetti trasportati dal
fiume, le effimere di taglia maggiore venivano assolutamente ignorate così
come la maggior parte di quelle più piccole, per contro ben difficilmente si
lasciava scappare uno dei tanti chironomi emergenti. Mi sentivo teso come una
corda di violino, sapere che era l’ultima possibilità e che avevo un solo
tentativo a disposizione non contribuiva certo a tranquillizzarmi. Comunque
riuscii ad eseguire il lancio correttamente, le hackles assorbirono bene
l’urto contro il tronco impedendo all’amo di infilarsi, ed il bruco cadde in
acqua così come avevo immaginato. La Porcaccia partì come un fulmine, la prima
sensazione fu che scappasse a rintanarsi, invece si gettò a capofitto sulla
mosca, con una voracità talmente inattesa che quando finalmente ferrai, non
con la cauta decisione che avevo programmato ma con una mezza sciabolata, si
era già girata per tornare al punto di partenza. Per un attimo rimase come
impietrita poi si rigirò, tentò di liberarsi dall’amo con una testata verso
sinistra, poi verso destra ed ancora verso sinistra, magra com’era dalla mia
posizione sembrava un serpente. Risalì un attimo fino a portarsi esattamente
sotto il tronco poi si girò e mi venne incontro fino a fermarsi a non più di
un metro dalla mia gamba sinistra. Raddrizzai leggermente la canna mentre
alzavo il braccio destro, per mantenere la lenza in tensione, e fu a questo
punto che accadde l’imponderabile, aprì la bocca lasciandomi vedere il bruco
saldamente conficcato nella lingua, venne in superficie e si lasciò guadinare
con più facilità che se fosse stato uno straccio. Dal momento in cui l’avevo
ferrata stimai che non fossero trascorsi più di cinque o sei secondi.

Mentre la slamavo provai, anche se solo
per un attimo, un po’ di rimpianto per la strenua difesa delle Scardole del
Bevano che avevo catturato pochi giorni prima. Non si mosse neppure quando
l’appoggiai su un sasso per misurarla e fotografarla, in compenso, non appena
la rimisi in acqua per la rianimazione, partì come un fulmine per raggiungere
la tana. La delusione era veramente enorme, avevo agognato quel pesce fino
all’inverosimile ed ora che l’avevo preso mi rendevo conto che doveva essere
stato immesso da non più di un paio di settimane. Che fosse un pesce di
ripopolamento era chiaro fin dall’inizio, la bordatura bianca delle macchie
rosse, tipico delle Fario di ceppo atlantico, non lasciava adito a dubbi ma,
considerando l’abbondanza di cibo di cui disponeva, era veramente troppo magra
e le pinne, in particolare quella anale e quelle pettorali, erano parecchio
rovinate. Erano solo le nove e mezza, volendo avrei avuto un’ora abbondante
per continuare a pescare nelle condizioni più favorevoli ma, nonostante la
spesa non indifferente, quel permesso doveva essere (e fu) solo per la
Porcaccia; smontai tutto e tornai alla macchina. Nel pomeriggio, sul Piave un
paio di chilometri a valle di Belluno, avevo appuntamento con Bepi, Silvio, un
bel gruppetto di Temoli e …… ma questa è un’altra storia.
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