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La giornata di pesca è stata lunga. Il sole, la
luce eccessiva, i primi caldi cui non sono ancora abituato, m’innervosiscono,
ma con il passare del pomeriggio, gradualmente, questa sensazione si stempera e
svanisce.
Amo la sera, mi rilassa, con la sua quiete caratteristica mi fa tornare in pace
con il mondo ed aspettando il tramonto spesso mi capita di sedermi in riva al
fiume a ragionare sulle cose, la fretta per esempio, male dei nostri giorni, od
il tempo, più in generale. E’ strano l’approccio amore-odio che abbiamo con
quest’elemento: il tempo amico che passando scandisce
gli eventi (week-end, ferie, compleanni); il tempo nemico, distruttore, quello
che consuma le cose, quello che passando porta via amici e momenti felici. La
giornata di pesca è lo
specchio di questa contraddizione, passiamo il pomeriggio nell’attesa del
“cuop de soir” (quello
che sto facendo su questo sasso) e quando inizia la
festa questo paradosso addirittura si accentua: siamo contenti d’ogni minuto
che passa perché i pesci sono sempre più attivi, ne siamo allo stesso tempo
dispiaciuti perché il buio e con lui il momento di riporre la canna si
avvicina.
E’ un attimo
perdersi nei propri pensieri. Il sole è già
tramontato. E’ il momento
della sedge.
Ecco
le prime bollate. Malgrado stia
scrutando l’acqua e il cielo per vedere qualche insetto volare di solito le
trote mi anticipano: vedo prima i cerchi sull’acqua, c he gli insetti.
Bisogna sbrigarsi, la sera avanza inesorabilmente; anche le trote, che hanno
atteso questo momento, ora sembrano più nervose, come
consce della sua breve durata. Seppure sia il
momento magico,
complice la ridotta visibilità e l’eccitazione dei pesci, non sempre il
risultato è garantito: il poco tempo e la scarsa luce ne impediscono un
approccio sistematico. Per sfruttare al meglio questi minuti concitati possiamo
appoggiarci alle idee maturate da generazioni di pescatori. Mi viene da pensare
alle sedge con vistoso ciuffo bianco verticale, per facilitarne la visione
serale, od alle mosche già infilate negli appositi aghi passafilo per una loro
agevole sostituzione, ma più importante di tutti è azzeccare subito la
montatura: un finale più corto e robusto che ci metta al riparo da garbugli e
rotture impreviste (è il momento del pesce grosso) ed una mosca indistruttibile
che ci permetta numerose catture senza sostituzione, sono il nostro asso nella
manica. Quella che poi cambia, più che altro, è l’azione di pesca, il
movimento da imprimere all’artificiale. Da sempre mi hanno insegnato che tra
far dragare e pattinare una sedge esiste una grossa differenza, ma poi in realtà
nessuno me l’ha mai mostrata. Quello che ho notato pescando è che il
movimento adescante cambia di volta in volta. A volte ne preferiscono una quasi
sommersa che taglia di traverso la corrente, altre, solo quella che zigzaga
completamente fuor d’acqua, addirittura succede spesso di scatenare un attacco
tenendola immobile a fine passata. Una sera, sul Nera, mi è capitato di pescare
su trote impazzite che a pochissima distanza da me aggredivano solo le femmine
in ovideposizione, probabilmente attirate dal rumore prodotto dai loro ripetuti
tuffi contro l’acqua, ignorando
sistematicamente
quelle che rimanevano intrappolate o galleggiavano inermi. L’esperienza fu
frustrante. Dapprima provai a far
saltellare sotto la punta della canna un artificiale alla bell’e meglio, poi
con una grossa emergente posata violentemente e ripetutamente sullo stesso
posto, ma i risultati furono sporadici. Confrontate
ai pesci in attività le rare catture mi trasmettevano l’impressione di
casualità. Analizzando ciò che accadeva davanti a me, pensai di
collegare con
un bracciolo posto 50cm prima dell’emergente un’imitazione galleggiante.
Lanciando a valle ed usando la mosca di testa semibagnata come fulcro potevo ora
fare saltellare la sedge in verticale a mio piacimento, anche ad una discreta
distanza da me. Le trote non aspettavano altro e le catture da sporadiche
divennero sistematiche. Non mi entusiasmarono tanto le catture, quanto l’idea,
che spacciai come mia fino a quando, qualche tempo dopo, mi capitò in mano un
vecchio numero di fly-line in cui trovai descritto lo stesso stratagemma. Che
delusione, non ero arrivato primo.

Possiedo
da sempre qualche vecchia grossa sedge di Palù che riservo con religiosa cura
alle occasioni speciali, sono oramai danneggiate dalle numerose catture ma
pattinano sull’acqua come nessun’altra. Non sono mai riuscito a capire il
vero trucco per ottenere mosche come queste, malgrado aver copiato montaggio e
materiali, così mi sono ingegnato per trovare due soluzioni alternative: una
per far pattinare decentemente un’imitazione che galleggia bassa sull’acqua,
per intenderci che scia con la parte posteriore delle ali e del corpo appoggiata
sulla pellicola superficiale, la seconda da utilizzarsi quando la mosca deve
solo sfiorare la superficie, ad imitazione di quegli insetti che ronzano
sull’acqua come motoscafini.
Le sedge
che utilizzo nel primo caso sono costruttivamente di stampo classico
con un
collarino ridotto e, nota importante, costruite su amo ad occhiello diritto. Il
“trucco” consiste solo nel modo di legarle al finale. Ho notato difatti che
l’angolo che si forma tra mosca e nylon appoggiato sull’acqua genera al
momento della trazione una componente verso il basso che tende a farla
affondare. Occorre utilizzare uno di quei nodi che stringono sulla testa della
mosca, ad esempio quello classico da dry fly o l’Harvey knot (da preferire al
precedente con ami medio-grossi), ma invece di far fuoriuscire il filo da sopra
l’occhiello lo si fa passare da sotto. Con un finale ben ingrassato, al
momento della trazione, la testa della mosca non sarà forzata ad abbassarsi ma
tenderà a restare alta sull’acqua, perlomeno fino a quando il filo non buca
la tensione superficiale ed affonda. E’ evidente che sto' parlando di fili di
un certo diametro che sono poi quelli utilizzati abitualmente con questi
artificiali.

Per
ottenere
invece imitazioni che danno l’impressione di forte movimento e che stanno
sollevate dall’acqua occorre intervenire sul dressing. A differenza dei
montaggi classici che prevedono un hackle corta sul corpo ed una più lunga sul
collarino, i concetti qui sono ribaltati. Probabilmente l’idea non è nuova
comunque l’efficacia è notevole. Sul corpo monto a palmer un’hackle con
fibre lunghe, scegliendola tra quelle che si rastremano significativamente verso
la punta, bloccando il calamo vicino alla curva dell’amo.
In questo modo
otterremo un cono di hackles che si restringe progressivamente verso
l’occhiello. Montiamo due ali in gallina sagomata, non chiuse a capanna ma
aperte a “V” e direzionate leggermente verso l’alto. Per il collarino di
testa ci occorre un’hackle abbastanza morbida, buone quelle prelevate dalle
spalle di gallo, e con le fibre appena più lunghe delle ultime della
precedente.

Anche
questa mosca in pesca la legheremo con i nodi di cui abbiamo detto sopra ma nel
modo classico, cioè facendo uscire il nylon dalla parte superiore.
L’artificiale, lanciato in acqua, tenderà a posizionarsi naturalmente con la
parte posteriore più alta e questa posizione si enfatizzerà ulteriormente nel
momento in cui subirà una trazione, difatti la sua conformazione ed il filo che
forza l’occhiello verso il basso tenderà a portare l’amo quasi in verticale
ed il collarino di testa quasi parallelo al piano dell’acqua scivolando così
alla grande senza penetrare, sulla pellicola superficiale.

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