Sorgenti
Marco
Sportelli
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La vibrazione sotto al cuscino mi sorprende, per un attimo non ne ricordo il motivo. Poi scivolo velocemente fuori dal letto. Bello uscire in silenzio, furtivamente, senza che la casa si svegli. Tutto è già in macchina. La strada è deserta. Risalgo la vallata principale in una volata godendomi semafori lampeggianti e curve contromano ma anche così arrivo al bivio per questo ramo laterale che già il profilo delle montagne comincia ad emergere dal buio della notte. Mi sento in ritardo. Mi aspettano ancora chilometri di strada bianca ed un bel tratto a piedi. Devo sbrigarmi. Eccomi alla piazzola sul prato. Verde, verdissimo, come solo i prati in montagna sanno essere. Scendo e lo sfioro. Morbido, fresco, vivo. Mi accoglie come se stesse aspettando solo me. La rugiada è nell’erba ed immediatamente anche dentro i miei sandali. Mi assale l’odore umido del bosco ed un brivido di freddo. Agosto. Sensazione quasi dimenticata. La fretta e l’ansia, che mio malgrado mi han seguito fin quassù, svaniscono velocemente assieme alla scia di polvere che ho lasciato sulla strada bianca. Non sono in ritardo. Non ho fretta. Mi aspetta una lunga giornata quieta e solitaria. Mi aspettano anche trote semplici, spontanee. Trote che con la loro linearità d’intenti si contrappongono al mondo molto più complicato da cui sono momentaneamente evaso. M’incammino sul sentiero. Quiete, solitudine, trote. Tre rari elementi ma che a ben cercare sono ancora reperibili a pochi chilometri dalla città, a patto d’evitare le valli principali e dedicarsi ai microscopici riali ancora incontaminati. In verità è più pesca che pesca a mosca. Pescare con una mosca o con una canna da mosca non basta. Un treno di mosche lanciate con una moschera galleggiano e si vede la bollata ma non è pesca mosca, una ninfa lanciata con solo nylon ed una canna da mosca ci assomiglia ma non é pesca a mosca, un’imitazione di pellet lanciato sulla pastura è divertente ma non è pesca a mosca. Si può continuare all’infinito alla ricerca della purezza dello sport. Ognuno ha il suo ideale. Il mio prevede canna e coda di topo, una mosca secca, meglio se di mia costruzione, acqua corrente, una schiusa in atto ed una bella fario selvatica che bolla. Meglio se son solo, meglio se il fiume è naturale, meglio se è una risorgiva, molto meglio se lo conosco solo io. Ovviamente il 99% delle volte mi accontento di meno, ma ne sono conscio. Ecco, l’ideale sarebbe l’Unec, ed il genere umano svaporato. Nonostante il costo ci ho pescato, perché adoro le risorgive e perché ormai era diventato inevitabile. Tutti lo conoscevano e lo usavano come metro di paragone. Lo sguardo vacuo con cui annuivo a “hai presente l’Unec!? Ecco, è un po’ più…” non era più sostenibile. Purtroppo le foto spesso lo ritraggono vuoto o con rari pescatori, immagini bucoliche di calma e solitudine, ma in realtà è quasi sempre pieno di gente che pesca. Non sono immagini false, è che si sa, quando scattiamo foto non abbiamo molto interesse a mostrare le cose come realmente sono ma cerchiamo sempre l’immagine idilliaca, più simile a ciò che vorremmo che a ciò che è. E con tempo, diaframma ed angolo di ripresa si riesce a far quasi tutto. Quassù è poco pesca a mosca perché non è una risorgiva, non ci sono schiuse evidenti, l’acqua è quasi ferma, si usano rozze mosche da caccia, si lancia come si può e non c’è la bella trota che bolla. Comunque le trote ci sono, non grosse ma ci sono. E sono anche belle, ma nel senso letterale del termine, non nell’accezione comune di noi pescatori dove “bello” e “grande” sono la stessa cosa. Cammino, salgo, mi affanno, respiro. Aria. Solo per me, tutta per me. Aria sempre nuova, diversa, folate di vento la cambiano la mischiano, mi avvolge. Non sa di asfalto, non sa di sale. Sa di erba, e di aria. Ora scendo, lentamente tra il bosco e poi, sempre più ripido, scendo mi aggrappo e poi scivolo tra rami, muschio e foglie, e scivolo tra le foglie e l’odore di bosco. Mi alzo che sono un po’ bosco. Se qualcosa proprio si deve essere rotto speriamo non sia la canna… Ecco l’acqua. Tanta fatica per arrivare fin qui. Questa è l’acqua che mi piace, fredda, pura, primitiva. Acqua solo per me, l’attraverso, la risalgo. Mi circonda, penetra negli scarponi. Mi bagna. La risalgo sempre più in alto, sempre più vicino alle sorgenti, sempre più vicino alle origini di tutto, forse sempre più vicino a quello che sto cercando. Ma qui dove? Non ha neppure un nome, sulla mappa appare come una minima traccia azzurrina. Io, che vengo dalla città, lo chiamo “il fosso vicino a…” ma per un locale lo ha di certo, e forse una storia. Incidentalmente la regolamentazione prevede solo artificiali e il rilascio del pescato, ma per la tutela delle trote più degli sparuti cartelli fanno la distanza dalla strada e l’impegno per risalirlo. E’ uno dei tanti qui in zona, come di certo ce ne sono vicino a casa vostra. Per chi è interessato nel nostro sito (www.forlifly.it) trovate i regolamenti di pesca provinciali ed una breve descrizione delle zone No-kill. Quasi tutti i laterali che vi confluiscono portano trote, non è un segreto, sono visibili sulle mappe escursionistiche o vi imbattete risalendo i rami principali. Trote piccole, ovviamente. Alcune sono selvatiche, altre figlie di semine di avannotti. Ma quanto deve essere grande un pesce per soddisfarci? E’ un delicato bilancio di aspettative e possibilità. Le trote di torrente sono notoriamente piccole quindi quando in una pozza ne individuo una che, chissà come, è cresciuta oltre una certa taglia, posso scommettere che mi ruberà più tempo e chilometri a piedi di quando vado realmente a caccia di pesce grosso. Sono luoghi dove, in effetti, puoi dare un nome alle trote. Le poche che superano i trenta centimetri sono così rare ed indissolubilmente legate al posto in cui sono cresciute da poterle identificare. Ma soprattutto, nella mia memoria i fiumi sono popolati dai pesci che non ho preso. Ripongo velocemente in archivio quelli catturati ma continuo a ripensare ai pesci che ho solo visto o mi sono sfuggiti. Di una pozza di cui coscientemente ignoravo l’esistenza mi basta scorgerne un particolare, delle radici, certe rocce, un giro di corrente per ricordarmi chi la abita e dove. E’ un rapporto personale che prosegue negli anni. Dimentico compleanni ed anniversari ma ho un articolato database mentale di questi abbinamenti: so dove sei, insisto e mi aspetto di vederti. E’come bussare alla porta di un amico, se non risponde ci rimango male, temo sia rimasta vittima degli eventi o dell’uomo. Fortunatamente più spesso la vittima sono io, della mia goffaggine e la trota si è serenamente intanata ancora prima di vedermi. Come la gola si stringe mi sembra che il torrente diventi subito più piccolo e più freddo, un’illusione causata dalla lontananza dal sentiero e dalla ridotta visuale. Risalirlo è un po’ come scavare nel tempo. L’uomo c’è stato, in un passato remoto. Ha lasciato tracce che la natura ingloba e fa sue. Un muro a secco fa da terrazza a delle ginestre, più su dei fori sul greto, residui di una passerella in legno, ospitano girini e su, molto più su, dove ormai non me lo dovrei più aspettare, grigio come la grigia roccia che lo circonda, ecco il rudere di una casa. Vicino all’acqua, per usarne la forza, in una modesta
piana per coltivare il necessario. Nella bella stagione tornare all’auto
attraversando i versanti del bosco richiede molto più di un’ora e poi altri
3- Penso ai miei figli. I pesci, le pozze, questo rivolo d’acqua erano qui, testimoni allora, e lo saranno ancora dopo di me. Mi scuoto e tiro oltre. Ritorna la quiete, dentro e fuori me. C’è stato un tempo in cui pescavo in maniera frenetica. Ero molto più giovane, irrequieto e mirato alla ricerca del pesce e della cattura. Non la cattura bella per se stessa ma nella maggior quantità possibile. Le ore di guida, le lunghe scarpinate, lo stretto contato con la natura non erano esperienze con una propria valenza ma solo un tramite al vero fine: prendere pesce. Nel tentativo di curarmi dalla sindrome di essermi perso i migliori anni dei nostri fiumi mi rivedo sempre alla ricerca del posto più isolato e meno accessibile nel ipotetico assunto che solo posti irraggiungibili dall’uomo, con acque pure e pesce selvatico, potessero condurmi a ritroso a questo utopico momento magico della pesca. Nel processo di confermare ciò mi rivedo stanco, bagnato, spesso in un torrente di cui non conoscevo bene la via di ritorno. Spesso con meno catture di quelle che potevo realizzare sotto casa. Forse con meno di quelle che realizzo ora. Sembra strano ma è proprio il fine estate, con i suoi bassissimi livelli, il periodo migliore per questi posti. Ora l’acqua scivola silenziosa sulle lastre di roccia. Il torrente non è più un tutt’uno in cui si susseguono buche e pianette ma è una sequenza spezzettata di pozze uniche, scollegate, inanellate una dopo l’altra solo da un minimo, fragile, filo d’acqua. Pozze che hanno vita propria. Non essendoci un reale flusso spesso le trote si posizionano nei posti meno attesi, e non sempre ci danno l’occasione di un secondo lancio. La nostra mosca per essere efficace deve quindi possedere delle caratteristiche peculiari: deve essere voluminosa, inaffondabile, per l’endemica carenza di spazio aereo che rende minimi o inesistenti i falsi lanci, e “farsi sentire” quando cade. La soluzione logica e perfetta è una semplicissima Chernobyl. Assomiglia a tutto ed a nulla. Attira le trote che la scambiano per qualcosa di già visto ed inganna anche quelle abituate ad aggredire tutto ciò che si differenzia dagli inerti caduti casualmente in acqua. Con la sua mole difficilmente passa inosservata, regge le trazioni e le vibrazioni che genera alla posa sono irresistibili come le note del flauto magico: attirano e richiamano le trote fuori dalla loro tana anche da metri di distanza. Ma soprattutto ne nutro una fiducia sfacciata. In questo sport dove la scelta della mosca è sempre un compromesso tra scienza esatta, superstizione e fortuna questo mostro con le zampe mi permette di sospendere momentaneamente il razionale e catturare senza remore. Si lo so, mi dovrei vergognare ad usare un’esca sintetica, ed un po’ lo faccio. Ma funziona. Tra l’altro la classica triade ETP (Effimere-Tricotteri-Plecotteri) quassù seppur presente non è il pasto costante e quotidiano. I grossi ecdyonuridi ed i plecotteri, tra l’altro, sono così antipatici quando schiudono da farlo addirittura fuori dall’acqua. Un semplice pezzo di foam farebbe allo scopo ma io le costruisco con grazia, una forma elaborata, il sottocorpo colorato e simpatiche zampette. Lo faccio in parte per pacare i miei sensi di colpa e in parte per la smodata intelligenza che, quale mio avversario, mi piace attribuire al pesce. Ho notato che le trote in queste pozze di acqua ferma e cristallina agiscono in due modi. Alcune, prepotenti ed aggressive, attraversano la buca a razzo e la prendono senza remore “la-buca-è-mia-e-mi-spetta”, altre, meditative e pudibonde, si avvicinano lentamente, sanno che la buca è loro, sanno di aver pochi rivali e molto tempo, e per un lungo momento si fermano ad un pelo dall’esca. Ecco, in questo momento mi piace pensarle intente a valutare con occhio critico il colore e la forma. A contare le zampette. Una ad una. Con il fiato sospeso le immagino approvare e finalmente ghermire il mio allettante inganno. In realtà hanno un cervello molto semplice. Esiste solo azione-inazione, e pensieri basilari, tipo: ”O mordo sta schifezza o anche oggi niente cena!”. Ma è così che mi piace pensarle. Per ottenere il massimo è importante il periodo dell’anno ma anche l’orario. In questi riali occorre esserci di prima mattina. Sì, sarebbe ottimo anche a tarda sera, ma chi è disposto a farsi cogliere dalla notte così lontano dall’auto alzi la mano! Le trote, come tutti i predatori, non amano la luce. Quelle che alle 7 sono voracemente appostate a fine buca, alle 9 sono già semi intanate ed alle 11, anche nel buio del bosco, si sono già smaterializzate, non sono mai esistite. Il placido amico che li risale in questi orari li trova imbarazzantemente deserti e privi di vita… per poi rinfacciarmi la pessima dritta! Non solo si cattura di più ma dopo la lunga mattinata di pesca mi rimane ancora tutto il pomeriggio, stanco ed appagato, per recuperare la levataccia con un’altrettanto lunga, giustificata, gratificante dormita in spiaggia. E bisogna venire da soli. La solitudine fa parte
dell’esperienza, enfatizza le emozioni. Da soli il bosco è più buio, il
torrente più selvaggio e isolato, il sentiero di ritorno più lungo e ripido.
Ci si sente gioiosamente irresponsabili, e incoscienti quel tanto che basta
ad avere quel minimo fisiologico d’adrenalina in circolo che acuisce i
sensi, mantiene vigile l’attenzione e minimizza i tempi di reazione. Non è
che siano posti realmente pericolosi, anzi il nostro Appennino di solito è
gentile, non chiede troppo: è molto più pericolosa la tangenziale all’ora di
punta. Il reale inconveniente è la lontananza dai consimili, il telefono non
prende, nessuno passa da queste parti e un piccolo problema fisico può avere
scomode conseguenze.
Più su ho un appuntamento. La prima volta l’ho punta, la
seconda non c’era, la terza c’era ma con due lenti colpi di coda è entrata
nel buio. Ora però so dov’è. Una grossa roccia scende in diagonale di fianco
alla riva, creando una profonda tana in ombra. La grossa Chernobyl
rocambolescamente atterra proprio lì vicino. Le zampette fremono. Attendo.
La muovo. Attendo. Nulla. E’ solo quando la mia attenzione scema e lo
sguardo e l’interesse sono già rivolti alla pozza successiva che la
maledetta ghermisce l’esca e s’intana. Ecco un buon motivo per tornare. Mi siedo su questo enorme masso e addento la mia pesca. Non è neppure comodo, è solo una tana perfetta per un essere schivo o un ottimo posto di osservazione per uno come me che ha deciso semplicemente di fermarsi a guardar scorrere l’acqua. È difficile venir quassù ma è una cosa che di tanto in tanto va fatta. Smettere significa esser diventati vecchi, vagabondi od ancor peggio, troppo presi dalla vita quotidiana. Non ho nulla contro gli impegni quotidiani è solo che adoro perdere tempo in cose secondarie, marginali, cose che però mi danno più soddisfazione di quelle che “devo” fare, che mi portano guadagno economico o sociale. Spreco tempo a scrivere cose che il lettore dimentica in pochi minuti con lo stesso impegno e determinazione con cui ho sprecato tutta la mattina per catturare questa bella trota. E neppure ci sono riuscito! Eppure non capisco il valore che do all’inutile, l’importanza che attribuisco al futile. Forse sono semplicemente indulgente verso me stesso, tutto sommato mettere alla prova le mie abilità confrontandomi con un essere estremamente limitato è serenamente appagante, tanto più che prenderlo o non prenderlo all’atto pratico è ininfluente, lo rilascerei comunque. E quando sarò diventato troppo vecchio per venir quassù? Beh, sarà giunto il momento di comprar casa a Planina!
Dove possibile evito di rientrare lungo l’alveo: troppo pericoloso. Meglio il bosco. Quassù non esistono sentieri ufficiali ma solo vaghe tracce lasciate dal continuo passaggio d’animali, embrioni originali di qualsiasi sentiero, e poi viottolo e poi strada dell’uomo moderno. Mi stupisco di come l’istinto animale agisca razionalmente, ogni volta che la mia “intelligenza superiore” mi suggerisce un cambio di direzione finisco sempre contro un dirupo od una parete verticale. Sentieri logici e perfetti, tranne certi passaggi da brivido dove mi sovviene che loro hanno quattro zampe e, senza nulla togliere al Sig. VI.BRAM, zoccoli evolutisi in milioni d’anni. Tagliare in diagonale dei versanti dell’Appennino non è sfiancante ma diciamo che quando arrivato in cima al crinale finalmente intravedo il segno bianco-rosso del sentiero ufficiale, anche se manca ancora un’ora al parcheggio, tiro un grosso respiro e mi sento confortevolmente a casa. A proposito, questo lo chiamano il sentiero dei Lupi. Mmm… ci sarà un motivo? Però, da qui non è male! Lo sguardo spazia oltre la valle, i profili delle montagne si susseguono ed ogni crinale, a ben guardare, cioè, a guardarlo con l’occhio di un fanatico, sottende un relativo ruscello. Il mio s’intravede, anzi s’immagina, laggiù, dove i due versanti s’uniscono. Quassù, così poco collegabile all’acqua, chissà cosa cela quel sorriso ambiguo che mi rivolgono questi tre escursionisti notando il mio abbigliamento e la canna da pesca! Scendo verso la macchina. Sono ancora in montagna ma l’orario e l’essere uscito dall’ombra del bosco mi ricorda che è agosto, mi ricorda che al primo gruppo di case, poche per avere un nome, c’è una fontana. Di solito mi fermo. All’ombra di un grande fico c’è un muretto a secco e una sorgente gelida. Di solito me ne vado con una scorta d’acqua. Oggi, seduto lì accanto, un anziano aspetta mezzogiorno. E’ un locale, si vede. Ha pantaloni color sabbia, camicia marrone ed un cappello grigio; con gli anni ha preso i colori del posto. La fretta per ora è ancora polvere appoggiata sulla strada e la spiaggia può attendere. Mi prendo il mio tempo. Quest’anno voglio andarmene con acqua fresca, il nome di un fosso… e forse una storia.
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