La squadra di guardia
Fabrizio
Turroni
|
|
Smog, code stradali, nervosismo.
Per molto tempo io, giunto qui all’età di diciassette anni da un altro paese, sradicato, spaesato, disadattato… straniero, che trovavo pace solo in mezzo alla natura, ho sognato posti lontani “migliori di qui”. Ho fatto qualche viaggio in luoghi bellissimi, quasi incontaminati, ho pescato pesci selvaggi in acque pure che si potevano bere, circondato da boschi, canyons e praterie a perdita d’occhio; la civiltà a chilometri e chilometri di distanza.
Tutto bellissimo, si, ma conservando
sempre la sensazione di essere straniero e che quindi ci fosse un altrove ancora
migliore, in cui mi sarei sentito a casa. Ho pensato addirittura di trasferirmi
in paesi remoti in cui dar sfogo alla mia passione. Come se il dare me stesso ad
una natura selvaggia costituisse in realtà una restituzione di qualcosa,
qualcuno che gli appartiene. Non è stato il coraggio a mancare; c’era invece
qualcosa che non quadrava nell’immagine che mi facevo di me in quei posti. Non
in pesca, bensì nelle piccole cose della vita quotidiana, nei gesti più comuni
e ripetuti, nel significato di una parola terribile: solitudine. Ho ripreso
varie volte in mano le mie foto di pesca ed
Casa mia; dove si può fare una foto con
una bella trota avendo per sfondo un campanile medioevale o un ponte romano, con
tutto il peso della storia dell’uomo alle spalle… Dove posso fare una foto
in una vecchia osteria con gli amici un po’ ciuchi, il sangiovese sulla tavola
e quel colore che mi fa pensare “casa”.
E forse è tutto qui: quei lontani
canyons, praterie e fiumi restano stupendi, ma qui il paesaggio siamo noi con la
nostra cultura, la nostra storia, la nostra tradizione. E non si può fuggire da
questo paesaggio senza con questo fuggire un po’ anche da noi stessi. Il paesaggio siamo noi con la nostra storia di progresso, i nostri monumenti, la nostra lingua e, certo, anche le nostre cose meno belle; col traffico, l’inquinamento, lo stress. Ma posso solo accettare tutto in blocco: il bello ed il brutto di noi e decidere di fuggire oppure esserci. E partecipare (“Libertà non è stare sopra un albero. Non è neanche avere un’opinione. La libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione” G. Gaber). E preservare e, se si può, migliorare. Mi viene in mente un passo di A. de Saint-Exupèry: “Scorgevamo un campanile, sentivamo risuonare i correggiati. L’azzurro del cielo colmava tutti i vuoti. I contadini falciavano il grano, il curato dava il solfato alle sue vigne, qualche parente, in salotto, giocava a bridge. Noi chiamavamo quelli che per sessant’anni, dalla nascita alla morte, vivevano in quell’angolo di terra, prendendo in consegna quel sole, quel grano, quella casa, noi chiamavamo quelle generazioni presenti “la squadra di guardia”. Perché amavamo immaginare di essere sull’isolotto più minacciato, tra due oceani infidi, tra il passato e l’avvenire”. Ecco qua: un profondo grazie agli uomini della squadra di guardia, che nonostante i problemi di lavoro, di famiglia etc. ci sono. Che organizzano, presiedono e partecipano ai corsi di lancio, di costruzione, alle attività sociali. A quelli che custodiscono e diffondono uno spirito di approccio verso l’ambiente e verso gli altri che è cominciato non so dove, tanto tempo fa e che ci è stato trasmesso ed affidato. A quelli che nella nostra epoca consumistica che fagocita tutto, ambiente compreso, lavorano per salvare piccole perle come i nostri torrenti appenninici, o, più in là, gioielli come il Nera. A quelli che, in qualche modo, nel loro piccolo, si sentono responsabili di ciò che accade al nostro paesaggio e quindi anche a noi. A quelli che ci sono e continuano a ribadire che “qui” è casa nostra.
|