Troppo piccolo? Forse no.
Ricordi e considerazioni sulla pesca nei piccoli torrenti del nostro Appennino
Sportelli Marco
(Già pubblicato su Fly Line)
Parcheggiata la 500 vicino alla fontanella imboccammo il sentiero che per quanto impegnativo era ben segnato dall’uso frequente. Portava, dopo una faticosa discesa, quasi cento metri più in basso, dove il torrente s'immette nel lago. Era il luogo preferito, anzi l’unico, in cui mio padre mi portasse a pesca di trote, col verme naturalmente.
Di trote ne ricordo poche e piccole, così le nostre uscite si limitavano ad una forse due per stagione. Trote in Appennino uguale scarpinate e poco pesce, questo fu il mio “imprinting” giovanile. Ho poi imparato la tecnica della mosca, frequentato fiumi comodi e ben popolati di pesce, mi sono lasciato viziare dalle riserve e dalle zone NK, e tutto ciò ha ulteriormente rafforzato la mia convinzione, non ho più messo piede nel mio Appennino preferendo piuttosto una battuta a cavedani qualche chilometro più a valle.
Sono tornato. Dopo tanti anni ho trovato agevolmente la fontanella. Ho cercato lungo il ciglio della strada il vecchio sentiero ma inutilmente. Scendere alla cieca tra rocce e cespugli è impensabile, troppo ripido e troppo distante. Laggiù, tra la vegetazione s’intravede vagamente il riflesso dell’acqua. Irraggiungibile. Salgo in macchina e proseguo ben sapendo che per qualche chilometro la strada s'allontana ulteriormente dal torrente. Dopo un paio di curve invece, ecco un segno del progresso, una stradella disconnessa, scende in direzione del torrente. Il buon senso mi consiglia d'andare a piedi. Naturalmente non scendo dall’auto e dopo diversi sobbalzi arrivo vicino al guado. La stradella prosegue oltre, indifferente al fiume s'arrampica sull’altro versante, chissà per dove, si vede solo roccia e bosco. Sono solo, nessuno con cui dover spartire la piana, nessuno che all’improvviso entrerà in acqua proprio dove io pensavo di pescare, nessuno che mi guarderà male solo perché esisto. Ma prima d'aver realizzato tutto ciò ho già indossato stivali, giubbino e montato la canna a tempi da “pit-stop”.
Sindrome da competitività.
Qui non c’è fretta. La convinzione di non incontrare altri pescatori mi s'avvalora risalendo il torrente: il sentiero che a tratti lo costeggiava non esiste più, il greto del fiume, unica via di risalita, è spesso ostruito da alberi caduti su cui rovi e rampicanti hanno creato ammassi invalicabili. Non mi preoccupo, ho quello che serve.
E’ una giornata bellissima, cielo coperto, qualche goccia, un vago odore di temporale. Dopo anni di pesca a mosca sono entrato in empatia con il pesce, disdegno le giornate di sole, smanio se dall’ufficio vedo il cielo coprirsi per una perturbazione in arrivo, so che dovrei essere là, da qualche parte vicino all’acqua. Continuo a risalire lentamente, i punti utili alla pesca sono pochi. E’ più piccolo di come lo ricordavo però le trote le vedo, le più scappano indenni, qualcuna con un'esperienza in più. Qualcosa attrae la mia attenzione: le radici contorte di un grosso albero delimitano il lato più profondo di una piccola buca, i rami la ricoprono ad ombrello. Il posto di per sé è insignificante, non riuscirei neppure a lanciare, mi ha colpito qualcos’altro. E’ un ricordo, mi siedo sulle radici e riemerge nitido.
Mio padre dopo qualche consiglio m'aveva mandato avanti, senza successo, l’inesperienza faceva la sua parte. Finalmente vicino a queste radici qualcosa s'attaccò, mi parve, bellissima, fortissima, la più grossa del torrente e l’avevo presa io. Era una trota, la mia prima trota (forse neanche di misura). La feci volare sull’erba e l’agguantai come fosse un’anguilla, avere un trofeo da mostrare a mio padre m’inorgogliva. Mi raggiunse subito ed oltre ai complimenti del caso mi riservò un sorriso carico d’affetto e di soddisfazione personale. Ero finalmente “un pescatore di trote”.
Da quel giorno tutte le volte che tornavamo sul torrente saltavo le prime buche per l’impazienza di riprovare in questa. Mi scuoto e procedo oltre, le catture si susseguono ma i ricordi mi perseguitano, chi m'accompagnava da ragazzo non c’è più o forse ... ancora sì, perché è strano, quando sono a pesca non riesco mai a sentirmi solo, un sorriso particolare m'accompagna.
Ho ricominciato a frequentare abitualmente questi luoghi. E’ incredibile quanti chilometri d'acque non frequentate si possono trovare. Mi riferisco a piccoli torrenti generalmente non ritenuti idonei per la pesca a mosca, luoghi che richiedono una certa conoscenza ed un discreto impegno fisico. Storicamente erano battuti da pescatori locali in cerca di cestino, ma con l’aumentare del benessere sempre meno gente è disposta a scarpinare per due trotelle. Molto meglio i surgelati del supermercato. Così, passato il periodo dell’apertura, quando si può far’ quota senza fatica dove senza fatica si è seminato, i torrenti si spopolano, per non parlare di riali od affluenti secondari che vengono totalmente ignorati. Le trote, qui raramente disturbate, si riproducono regolarmente, se ne trovano di tutte le classi d'età dall’avannotto alla vecchia fario, ma anche se la taglia media è molto limitata, quando verso sera torno a casa mi sento sempre pienamente soddisfatto. Sarà la pace, la solitudine, lo stretto (spesso troppo) contatto con la natura o più probabilmente è vero che la soddisfazione è funzione delle aspettative: più lontana, cara, o famosa è la nostra meta di pesca, più è probabile tornare parzialmente insoddisfatti. Pescando a mosca le variabili in gioco sono tante: acqua alta, bassa, pochi insetti, troppa gente, pesce selettivo... di solito qualcosa non quadra, ma anche quando tutto è perfetto le attese maturate nel viaggio d'andata, raramente corrispondono al bilancio del ritorno;
Eh si, “le cose semplici son' sempre le migliori” recita un adagio popolare (ma solo se si è abituati a quelle di lusso, aggiungerei).
Essendo una pesca di movimento in ambienti ostici l’attrezzatura è ridotta all’osso: un rotolo di filo ed una piccola scatola di mosche sono tutto ciò che serve, occhiali e camicia a manica lunga possono giovare nel proteggersi da rami e spini. Non so se è molto etico ma un attrezzo che non dimentico mai di portare in questi luoghi è la forbice da potatore. Se ne trovano, ad uso giardinaggio, economiche, leggere, con punte arrotondate e blocco di sicurezza. Indispensabili nell’affrontare un roveto o perché no, per eliminare quel rampicante maledetto che c'impedisce di lanciare nell’unico posto buono.
Un discorso particolare lo merita la canna.
Presentare una mosca in questi piccoli torrenti appenninici è un’impresa ardua, gli alberi ed i cespugli cresciuti a ridosso dell’acqua spesso creano tunnel di vegetazione, lasciando poco o nulla spazio per il lancio. Le trote, quelle autoctone, sono molto diffidenti, fuggono al primo accenno di pericolo.. Mi è capitato, tornando ripetutamente nelle stesse zone, di vedere certe trote di taglia, solo due o tre volte e sempre da lontano, avvicinandomi con tutte le precauzioni del caso a distanza utile di lancio già si erano dileguate. Il luogo comune “in torrente solo lanci molto corti “ credo valga solo per quelle di ripopolamento. Con un approccio tradizionale la nostra mosca non raggiungerà mai l’acqua, perlomeno senza che prima noi abbiamo spaventato il pesce. Per avere successo in questi ambienti occorre un attrezzo e delle tecniche di lancio che ci permettano di posare la mosca più lontano e con più precisione. Trovo indispensabile a tal fine, la versatilità della teleregolabile, meglio se caricata con la coda di un numero più pesante. Ad esempio, quella da me autocostruita, è impiegabile in tre misure:
· 5,8”: nei rari casi in cui sia possibile volteggiare la coda lateralmente
· 7,3”: per eseguire roller o semi-roller quando la vegetazione lo permette
· 8,8”: dove è possibile lanciare solo a balestra.
Il lancio a fionda, o balestra che dir si voglia, è sicuramente il più utilizzato, il vero limite è la distanza massima raggiungibile. Ecco alcuni punti per eseguirlo correttamente e migliorarne le prestazioni:
-impugnare saldamente il manico della canna con il pollice sopra, prendere fra pollice ed indice dell’altra mano le ali o la coda della mosca, raccogliere a spire finale e coda di topo nella quantità necessaria al lancio e sempre con le stesse dita stringerle saldamente, avanzando con la canna, tenuta bassa e puntata al bersaglio, mettere in sensibile trazione la coda, arretrare velocemente la mano fin sopra la spalla e lasciate di colpo: o vi s’infila la mosca in un dito o riuscirete a posarla con una certa precisione oltre gli 8-10 mt di distanza
La canna telescopica mostra la sua praticità anche durante gli spostamenti, è un attimo richiuderla ed infilarla nella sacca posteriore durante i passaggi impegnativi. Un finale da 1,8-2 mt è più che sufficiente. Pescando con finale corto e pochissima coda fuori l’inconveniente più ricorrente (mi fa imbestialire) è veder rientrare il tutto, fino alla mosca, dentro agli anelli. Per evitarlo quando li costruisco lascio un baffo laterale nel primo nodo del sangue di circa un cm, questo funge egregiamente da stop sull’apicale, ma rientra tranquillamente se messo in trazione.
Due parole sugli artificiali. Non avendo criticità imitative i parametri di scelta saranno basati sulla funzionalità. In queste acque uso esclusivamente royal coachman parachute, variandone taglia e massa di hackle in funzione dei livelli, poiché soddisfano dei requisiti per me fondamentali:
-galleggiabilità e visibilità al pescatore, conferite dal tipo di montaggio e dalle ali bianche.
- alta visibilità al pesce, dovuta al corpo voluminoso posto sotto il pelo dell’acqua che ne permette l’individuazione da parte della trota anche al di fuori della finestra visiva.
- capacità di differenziarsi dagli inerti, datagli dall’appariscente riga rossa. E’, infatti, facile supporre che la selezione del cibo sia in funzione della disponibilità: in ambienti trofici i pesci si concedono il lusso di nutrirsi nelle ore a loro più consone e degli insetti che preferiscono, in zone a medio apporto ghermiscono tutto ciò che per loro esperienza riconoscono come cibo, in torrenti oligotrofici, dove ogni lasciata è persa, attaccano tutto ciò che passa, purché si differenzi come forma, colore o comportamento dagli inerti (foglie, rametti) trasportati costantemente dalla corrente.
Provare a risalire questi piccoli torrentelli è un’esperienza che si differenzia dal concetto abituale di pesca a mosca, il piacere non è dato dall’azione di pesca, ma dalla curiosità che questa rapida successione di gole, rapide, buche e cascatelle riesce ad instillarci. Una voglia di scoprire che ci spinge sempre oltre la prossima curva, il tutto enfatizzato dalla sensazione di sentirci i primi, forse unici, pescatori transitati da queste parti.
Per me, inoltre, è sicuramente un ritorno alle origini. Spesso mi chiedo cosa vada veramente cercando lunghi i fiumi e non mi stupirebbe scoprire, che fosse il me stesso di tanti anni fa, un ragazzo con la spensieratezza e la gioia di vivere caratteristici della gioventù.
Qualsiasi sia il vostro motivo, scegliete un piccolo affluente sulla cartina e partite.
Capire se è quello giusto è facile: un buon torrente è come un amante molto appassionata, sicuramente vi lascia qualche graffio. Più difficile, casomai, spiegare alla consorte dove siete stati veramente tutto il giorno.